E' noto che l'uso della parola è prerogativa quasi solo della razza umana. Poche limitate eccezioni dimostrano che anche alcune specie a noi affini, scimpanze, bonobo, gorilla, sono in grado di utilizzare il nostro vocabolario per comunicare, col linguaggio dei segni , essendo impediti dalla loro anatomia a pronunciare suoni articolati come quelli di un linguaggio.
Parlare in pubblico implica la presenza di ascoltatori che entrano nella dimensione dell'ascolto |
Poi il concetto di comunità si estende: scuola, amici, parrocchia, squadra, gruppo, associazione, colleghi, l'orizzonte delle interazioni si fa ampio, e anche la complessità della comunicazione si fa più alta.
Si fa esperienza anche di comunicazione uno a molti: l'insegnante spiega a tutta la classe, il sacerdote commenta dall'altare, l'esperto tiene una conferenza, il coach ammonisce la squadra, il politico illustra il suo programma.
Spesso non è evidente, ma nel seguire chi sta parlando, si accetta in una qualche misura di condividere quel flusso informativo con altri, e in definitiva di appartenere a una stessa comunità di interesse.
Un episodio vissuto in prima persona può essere un esempio efficace.
A Barcellona, poche ore dopo l'attentato |
Nei giorni dell'attentato a Barcellona, la scorsa estate, la mia famiglia, con un gruppo di amici, era lì, e ci trovammo, pur senza essere coinvolti direttamente, nel caos dei momenti immediatamente successivi. La sera, in camera, seguimmo i notiziari, e nonostante tre su quattro di noi non conoscessero lo spagnolo, non solo eravamo avidi di immagini e informazioni, ma ascoltavamo il tono delle testimonianze, empatizzavamo con i cittadini catalani e in qualche modo ci sentivamo parte di quella comunità ferita.
Quando la parola diventa pubblica, realizza una comunità.
Altrove ho raccontato di come la parola riempia gli spazi, si insinui nella vita portando il suo contenuto di significato a sostenere la nostra ricerca.
La parola crea anche empatia, così come ha fatto ancora la talentuosa Arianna Scommegna a teatro con "Potevo essere io",(1) agrodolce monologo sulla vita di periferia, che può plasmare il destino di una persona in molti modi diversi. Il riferimento a esperienze comuni, anche quelle tragiche, pur con qualche generazione di differenza, il repentino cambio di registri, la capacità di Arianna di "tenere il palco", anche senza microfono che la ha abbandonata nei primi minuti di recitazione, tutto questo ha reso permeabile la nostra membrana affettiva.
Tutti noi ci facciamo portatori dell'esperienza della protagonista, e tutti noi pensiamo che "potevamo essere noi". Siamo stati spettatori di una esperienza culturale, ma che ha scavato nelle nostre vite (che è poi quello che la cultura deve fare, in fondo).
Anche durante la lettura recitata del testo di don Tonino Bello, fatto da alcuni amici,(2) si percepiva quel senso di appartenenza a una comunità, che nello specifico si stringe nel ricordo di un uomo non comune, un sacerdote che fa scordare le gerarchie e le sovrastrutture per entrare nel cuore del senso di Dio.
Dunque già il riunirsi in un luogo per ascoltare insieme, essere pubblico per qualcuno, e percepire la parola che tutti raggiunge come elemento agglutinante, significa accettare di essere singolo in un insieme, parte di un gruppo, elemento fondante di un organismo dove il tutto è maggiore della somma delle singole parti.
(1) 13 aprile 2018, Teatro Agorà, Cernusco s/N
(2) 20 aprile 2018, Parrocchia del Divin Pianto, Cernusco s/N
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