Vorrei cogliere l’opportunita` data dalla pubblicazione sul dorso culturale de Il Sole 24 Ore di un manifesto per la rinascita della cultura in Italia, per tracciare un parallelo in ambito locale.
La prima pagina di Domenica ( 19 febbraio ) riporta questa proposta declinata in cinque punti che , a partire da una definizione di cultura che si coniuga strettamente con lo sviluppo ( e che quindi non puo` e non deve essere considerata elemento accessorio) propone un cammino di recupero strategico di quello che e` un punto di forza del nostro Paese.
Molti analisti e divulgatori concordano nel riconoscere che lo sviluppo si puo` declinare con la sostenibilita` ambientale ed etica se si basa sull’economia della conoscenza. Ad essa si deve giungere con una adeguata preparazione in termini di strategia politica, di educazione, di cultura, appunto.
Già, ma quale cultura?
Nell’articolo si intende per cultura “una concezione allargata che implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica, conoscenza”. E per sviluppo non “una nozione meramente economicistica”.
Concetti di ampio respiro, forse un po’ generici, ma che non danno alibi a chi vorrebbe gestire solo una cultura d’elite.
In una dimensione locale, la promozione di una cultura cosi` intesa trova se vogliamo ancora più difficoltà. Il difficile, a mio personale parere, non è dato dalla disponibilità economica, ma dal riuscire a rendere la cultura veramente popolare. Che non vuol dire essere pop nel senso piu` svilente del termine. I nostri genitori ( nonni, per chi non ha superato la soglia degli -anta) conoscevano molte arie d’opera: quella espressione di cultura aveva una diffusione popolare.
Non c’è argomento difficile o impegnativo che non possa essere affrontato con semplicità. Fo e Benigni insegnano che Dante o altri classici possono essere proposti in contenitori nazional-popolari senza che il valore di quelle opere ne esca sminuito, anzi liberando nuove prospettive che avvicinano nuovi spettatori.
Per contro, il modello di broadcast della televisione rappresenta un ostacolo quasi insormontabile nel fare nascere tra i cittadini la voglia di esplorare nuovi e differenti orizzonti culturali.
Dunque, non e` rinchiudendo i concerti nelle sale e proponendo solo opere d’essai che la cultura prende vigore. E nemmeno proponendo esclusivamente temi cari al proprio gruppo culturale (se non politico) di riferimento, anche se tali temi si fregiano dell’aggettivo “popolare” .
Piuttosto si dovrebbe riprendere il modello sperimentato alcuni anni fa da coraggiosi interpreti della voglia di diffusione del sapere e della conoscenza e sfociato in cicli di appuntamenti identificati sotto il nome di Meeting della Cultura.
Un esempio di sussidiarieta` culturale a cui purtroppo non stato dato seguito e che mi pare non sia stato ancora imitato da nessuna organizzazione nell’hinterland. Temo non solo per problemi economici.
La prima pagina di Domenica ( 19 febbraio ) riporta questa proposta declinata in cinque punti che , a partire da una definizione di cultura che si coniuga strettamente con lo sviluppo ( e che quindi non puo` e non deve essere considerata elemento accessorio) propone un cammino di recupero strategico di quello che e` un punto di forza del nostro Paese.
Molti analisti e divulgatori concordano nel riconoscere che lo sviluppo si puo` declinare con la sostenibilita` ambientale ed etica se si basa sull’economia della conoscenza. Ad essa si deve giungere con una adeguata preparazione in termini di strategia politica, di educazione, di cultura, appunto.
Già, ma quale cultura?
Nell’articolo si intende per cultura “una concezione allargata che implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica, conoscenza”. E per sviluppo non “una nozione meramente economicistica”.
Concetti di ampio respiro, forse un po’ generici, ma che non danno alibi a chi vorrebbe gestire solo una cultura d’elite.
In una dimensione locale, la promozione di una cultura cosi` intesa trova se vogliamo ancora più difficoltà. Il difficile, a mio personale parere, non è dato dalla disponibilità economica, ma dal riuscire a rendere la cultura veramente popolare. Che non vuol dire essere pop nel senso piu` svilente del termine. I nostri genitori ( nonni, per chi non ha superato la soglia degli -anta) conoscevano molte arie d’opera: quella espressione di cultura aveva una diffusione popolare.
Non c’è argomento difficile o impegnativo che non possa essere affrontato con semplicità. Fo e Benigni insegnano che Dante o altri classici possono essere proposti in contenitori nazional-popolari senza che il valore di quelle opere ne esca sminuito, anzi liberando nuove prospettive che avvicinano nuovi spettatori.
Per contro, il modello di broadcast della televisione rappresenta un ostacolo quasi insormontabile nel fare nascere tra i cittadini la voglia di esplorare nuovi e differenti orizzonti culturali.
Dunque, non e` rinchiudendo i concerti nelle sale e proponendo solo opere d’essai che la cultura prende vigore. E nemmeno proponendo esclusivamente temi cari al proprio gruppo culturale (se non politico) di riferimento, anche se tali temi si fregiano dell’aggettivo “popolare” .
Piuttosto si dovrebbe riprendere il modello sperimentato alcuni anni fa da coraggiosi interpreti della voglia di diffusione del sapere e della conoscenza e sfociato in cicli di appuntamenti identificati sotto il nome di Meeting della Cultura.
Un esempio di sussidiarieta` culturale a cui purtroppo non stato dato seguito e che mi pare non sia stato ancora imitato da nessuna organizzazione nell’hinterland. Temo non solo per problemi economici.
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