mercoledì 21 marzo 2018

Racconto veritiero della mia prima visita alla Cappella della Villa dell’eccellentissimo Conte Giacinto Alari, sita in Cernuschio.



Io, Bertolo Belotti fu Bonaldo, da Averara, di professione falegname, venni incaricato per un certo tempo di provvedere alla realizzazione di ammobiliamento per le stanze della Villa del Conte Alari.
Avendo infatti questi ricevuto il grado di nobiltà da poco tempo, intendeva provvedere a nuovo mobilio, specie per quelle stanze che avrebbe destinato a futuri ospiti suoi pari.
In tal periodo, si era in Quaresima,  una sera venni invitato da alcuni lavoranti a partecipare alle celebrazioni  vespertine nella Cappella della Villa. Vi avrebbero partecipato anche i conti, mi dissero.
Ora, il signor Conte mi era familiare, avendo con egli contrattato i lavori e il compenso, sei soldi ogni mese. Ma mai avevo veduto la signora Contessa Teresa, che assai mi incuriosiva, avendo udito essere lei di molto bello aspetto e maniere.
Con questo proposito quella sera mi accostai alla Cappella. È questa una costruzione molto piccola, posta sul lato orientale  del maestoso cancello d’ingresso alla villa, la qual cosa è curiosa, sapendo che  i nobili amano realizzare nei loro edifici cappelle per i loro uffici sacri, ma sempre queste sono poste nel cuore della costruzione, invece questa è posta all’esterno, e senza entrare nella villa, fittavoli  e  mezzaiuoli possono assistere alle funzioni.
Entrai dunque, e ansioso di vedere la signora Contessa scrutavo le figure accanto alla balaustra, in attesa del sacerdote officiante, ma era tutta plebe, non nobili.
Uno al mio fianco, comprendendo il mio intento, mi disse che i signori assistevano la funzione da una stanza posta dietro la grata che si vedeva nella parete del presbiterio, sopra la porta che recava in sagrestia. Deluso, presi a guardarmi intorno, ammirando la cappella.
È questa una piccola costruzione  inclusa in otto lati di  cui uno si apre al presbiterio, ove risiede l’officiante,  tutta dipinta in tenui colori tortora e rosa incarnato, i fregi dorati ornano massimamente il presbiterio, e i capitelli che sostengono il soffitto. Lo quale è quanto di più magnifico abbia veduto.
Iscritto in una figura geometrica chiamata ellisse, un grande affresco apre la volta della cappella alla visione del Paradiso. La luce della Trinità  si diparte dal centro e illumina  innumerevoli figure, sicuramente santi, di cui tuttavia, a cagione della mia scarsa attitudine allo studio, non sapevo dare nome.

Mi risolsi dunque di chiedere al gentiluomo che mi stava accanto, a modo e ben vestito, e che dunque immaginavo in grado di illuminare la mia ignoranza. Difatti egli dapprima mi spiegò che la forma del soffitto era forse conseguenza delle scoperte dell’illustre scienziato Keplero, che riteneva tale figura geometrica come costante nei movimenti celesti. Inoltre mi  illustrò diligentemente tutti i santi ivi rappresentati, di cui però rammento solo alcuni. Abbiamo dunque, come figura principe tra tutti quelli che rendono onore alla trinità San Giacinto, protettore del signor Conte,  poco più in là, oltrepassati San Francesco  e un altro santo francescano, vi è Santa Teresa, patrona dell signore Contessa. Ancora, sul fianco opposto, San Carlo e Sant’Ambrogio.
Ancora il gentiluomo indirizzò il mio sguardo all’altare ove una grande tela magnificava ancora la divozione dei signori Conti, per tramite dei propri patroni, san Giacinto e santa Teresa, amorevolmente accolti dalla Nostra Signora Madre di Dio, con i braccio il Santo Bambino e alle spalle San Giuseppe.
Intanto i vespri erano iniziati. Stetti pensieroso sino alla conclusione. Uscendo mirai il grande edificio che oltre il cancello riempiva la visuale.
Pensai: gli uomini sono caduchi. Un attimo, e di noi non resta che un mucchietto di ossa. E una domanda nacque nelle mia mente. Cosa resterà di tutto questo? Resteranno solo le opere, gli edifici, l’arte e gli affreschi, o restera qualcosa anche di noi, uomini mortali?

Anno Domini 1735, Cernuschio,

Bertolo Belotti

sabato 10 marzo 2018

La fotografia di mio padre



C'era vento.
Il lago aveva la superficie increspata, come una carta stagnola stropicciata poi di nuovo lisciata a mano.
Mio padre, di profilo, guardava l'obiettivo con l'orgoglio di chi sa di essere fotogenico.
Non ha data, quella foto, ma lui avrà avuto venticinque anni.
Pieni anni cinquanta.
Mi guarda dalla foto come se sapesse che quello è il solo vero sguardo che ci rimane di lui.
Un'immagine mediata da una pellicola fotografica vecchia più di sessant'anni, eppure viva, vitale.
Non sapeva come sarebbe stata la sua vita.
Non avventurosa, ma modesta, semplice di lavoro e speranza.
Com'è giusto che sia

mercoledì 7 marzo 2018

Linguaggi, alieni, contesto

Alieno: che appartiene ad altri, estraneo
Nella connotazione di alieno, tanto ha fatto la fantascienza, presentando esseri di mondi lontani, con comportamenti, linguaggi, culture differenti dalle nostre. Ma trattandosi di prodotti umani, gli alieni cinematografici non sono altro che specchi delle nostre culture.


C'è un alto livello di inquinamento rumoroso nei nostri ambienti urbani, che sovrasta  i suoni dei vicini di casa non umani che sono ospitati nei giardini, nei parchi, sui terrazzi.
E se anche  i canti degli uccelli raggiungono i nostri orecchi, sono suoni a noi ignoti, alieni.
Pure sono linguaggi a tutti gli effetti, complessi, tanto che a ciascun verso viene  assegnato un differente verbo.
Il fringuello chioccola, mentre il pappagallo ciangotta. Il passero cinguetta, la tortora tuba ( sempre in coppia, da qui il parallelo con gli amanti), l'usignolo gorgheggia. La cornacchia ci disturba con il suo gracchiare, e si sovrappone al pigolare dello scricciolo o al garrire delle rondini e dei balestrucci. L'anatra starnazza e il falco stride, così come l'aquila, che però si guarda bene dallo scendere sino alla periferia urbana.
La complessità dei messaggi sonori, pur se prodotti da animali dall'intelligenza limitata, è tale che anticamente veniva definita come "Lingua degli Uccelli" un linguaggio mistico, perfetto, a volte di origine divina, solitamente precluso agli uomini o riservato solo a pochi iniziati.


Ho tra le mani un bellissimo erbario , datato 1522. Naturalmente non l'originale, ma una copia anastatica. Vi sono elencate numerose piante, le loro proprietà e caratteristiche. Eleganti immagini, ottima impostazione ,quasi scientifica.



Non capisco quasi nulla di quello che vi è scritto.

E' inequivocabilmente italiano ma ,complice la mia ignoranza anche botanica, oltre che letteraria, una frase che reciti
"Lo genebro sie caldo & secco nel terzo grado: & quando si troua nelle recette si de intender lo frutto"
mi risulta ardo da comprendere.

Il primo scoglio è il tipo di carattere: sono font non più usati, con la s che somiglia alla f , la v assente, sostituita dalla u . Le frasi sono consecutive, senza spazi o a capo.
Ma soprattutto  ho una grave lacuna semantica che mi impedisce di capire cosa significhi "caldo & secco nel terzo grado".

Insomma, se non si riesce a entrare nel contesto storico-culturale in cui questo testo è stato scritto, esso risulta quasi per niente comprensibile.
Un breve transito in rete mi viene in aiuto, e scopro che quei termini arrivano dagli studi di Ippocrate e Galeno sulle qualità degli oggetti naturali, che sono caldo, freddo, secco, umido.

Se avessi voglia di approfondire, potrei studiarmi il pensiero medico antico e quindi sarei in grado di comprendere il testo dell'Erbario.

Dovrei dunque entrare nel contesto.



È il contesto che crea l'informazione.
Prendiamo ad esempio la sequenza di lettere f-i-n-e :

FINE

In italiano esistono almeno ( per non farla troppo lunga) tre significati per questa parola
1) sottile, minuto
2) obiettivo
3) conclusione
se poi lo si legge in un contesto inglese, assume altri significati ancora, quali "bene", "bello".

Il contesto fa la differenza
Non si tratta solo di un tema inerente alla Teoria dell'informazione, nel cui ambito  il contesto  è uno dei fattori che determina la ridondanza ( W. Weaver, Some recent contributions to the Mathematical Theory of Communication,1949, cap. 2). 

Entrare in un contesto significa assorbire l'ambiente, percepire tutte quei piccoli segnali che lo costituiscono.  Senza preconcetti.

Entrare a contatto con una cultura che ci è aliena (fosse anche semplicemente  lontana), assorbirne le abitudini, le regole, ci porta a comprenderne il pensiero, espresso attraverso il linguaggio.   Persino gli etologi, studiando il comportamento delle specie animali, ovvero entrando nel loro contesto, riescono a ricavare i significati portati dal rozzo vocabolario di suoni.
E quello che un tempo era alieno, inizia a diventare familiare.


lunedì 5 marzo 2018

Dieci cose che ho imparato nell'essere padre

(approssimandosi la festa del papà, mi hanno chiesto una riflessione da pubblicare sul periodico Voce Amica, che qui riporto) 

In questa società liquida dove  i cambiamenti sono repentini, così come i diversi atteggiamenti dei nostri figli, ci viene chiesto di essere padri.
La base granitica su cui si basava la famiglia di cinquant’anni fa si è sgretolata e con gli anni e anche attraverso errori mi sono reso conto che le modalità ereditate dalla nostra educazione familiare a volte sono inutili o controproducenti.
Da queste e altre considerazioni nasce l’elenco, stilato qui sotto,  delle cose che ho imparato nell’essere padre.
  1. Ho imparato ad accogliere. I figli  entrano nella tua vita senza chiedere permesso, riempiono la casa, scombinano abitudini e orari, e quando sono molto piccoli  rilasciano spiacevoli prodotti del loro metabolismo.
  2. Ho imparato la pazienza. Per una qualche legge sulla relatività universale, il tempo di un bambino scorre diversamente dal nostro, e quello di un adolescente pure.
  3. Ho imparato a sciare a quarant’anni con mio figlio Nicolò, a conoscere i balletti di danza classica con Maria Sofia, a rivolgere attenzione allo sport ( basket, judo, persino calcio),  e apprezzare la musica classica e i musicals grazie al talento di Filippo.
  4. Ho imparato a non restare confinato ai gusti musicali e di costume degli anni ottanta, perchè l’arte è evoluzione.
  5. Ho imparato a essere esempio senza pretendere di insegnare.
  6. Ho imparato a essere sostegno senza sostituirsi.
  7. Ho imparato a essere guida senza essere competitivo.
  8. Ho imparato a educare senza imporre propri modelli.
  9. Ho imparato che solo creando legami di coppia, solo con una armonia che non è assenza di conflitti, ma comprensione e volontà di superare le differenze, si può continuare  a crescere come genitori ( un grazie a Gabriella).
  10. Ho imparato a perdere i figli, perchè quando si affacciano alla condizione adulta, tu non sei più davanti a fare la strada, ma dietro, a guardargli le spalle.
“I vostri figli non sono figli vostri... sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.
[...]
Voi siete l'arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.
L'Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell'infinito e vi tiene tesi con tutto il suoi vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane.
Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell'Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l'arco che rimane saldo.”

Gibran Khalil Gibran


Appunti
Commento sul mio taccuino ( cartaceo e in web) gli argomenti che di volta in volta mi sembrano più interessanti, con un obiettivo semplice: cercare di migliorare e rendere più chiara la mia visione del mondo. E se questo può aiutare anche voi, ne sono felice.