Attenzione: questo articolo ha subito alcune modifiche dopo la prima pubblicazione
Durante la chiaccherata degli Incontri con le autrici di questa sera in Libreria del Naviglio, che ho avuto la fortuna di presiedere e che ha visto protagoniste Laura Bonalumi e Loredana Limone, una domanda ha sollecitato la mia riflessione.
Infatti Eugenio, incidentalmente nostro sindaco, ha posto il seguente quesito, che è un po' la domanda che retrospettivamente si fanno tutti quelli che ambiscono a scrivere qualcosa di più della lista della spesa: come nasce il desiderio di scrivere una storia?
Senza andare a cercare di esprimere una sociologia della letteratura, che non mi è propria, penso che ci siano essenzialmente due modi di arrivare a produrre una storia, destinata a divenire un racconto o un romanzo.
La prima forma di motivazione è in-out: si narra di una esperienza che si è vissuta intensamente, non necessariamente in maniera autobiografica ma sicuramente portando le proprie tensioni e le proprie visioni della vita. Altrove viene detta autofiction , dove autobiografia e invenzione narrativa si confondono.
La seconda è una operazione in qualche modo inversa: attivati da quello che potrei definire come un fenomeno emergente nella complessità di stimoli che ci colpiscono ( concretamente, un evento, una particolare lettura, anche semplicemente un accenno su un qualsiasi media) si cerca l'approfondimento, si studiano i temi e i contesti, e da tale studio ne scaturisce una storia.
Oscillanti tra queste due opzioni ci sta un ampio ventaglio di possibilita` , limitate unicamente dalla fantasia dello scrittore e da poche regole di logica, racchiuse per lo piu` nel concetto di sospensione dell'incredulita`, accettato a patto che all'interno della storia esista una logica e venga rispettata.
In ogni caso, tutte le esperienze di scrittura hanno un altra caratteristica, specie se all'impegno non fa seguito una pur piccola soddisfazione pubblica: la tenacia.
Ma forse di questo parlerò un'altra volta.
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